Luciano Canfora, La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone.

Ho finalmente letto il saggio di Canfora edito nel marzo del 2014 da Laterza e la cui lettura ho deliberatamente rimandato essenzialmente per ragioni didattiche: Platone si legge ora in terza liceo e Aristofane lo tratto sempre in continuità con la commedia di ‘mezzo’ e la ‘nuova’. E’ un libro ricco (più di quanto possa dirne qui) di metodo, di filologia e di riflessioni storiche, letterarie, politiche che dall’antichità giungono al nostro presente, come è nello stile di Canfora. Ritornano temi cari e ricerche ormai più che quarantennali del nostro: la democrazia ateniese e quella moderna, la guerra civile ateniese, la retorica democratica, gli studi sulla filologia classica e l’ideologia del classicismo, l’uso delle fonti, la storia del comunismo, la riflessione sull’elitismo.

La tesi centrale ampiamente dimostrata, che corre lungo le circa quattrocento pagine del volume, è che con le Ἐκκλησιάζουσαι Aristofane non solo polemizzi, ma porti a compimento il manifesto obiettivo di degradare e ridicolizzare le proposte politiche che Platone avanza nella Πολιτεία o nelle Πολιτεῖαι (per questo titolo v. p. 21 e p. 170) (Repubblica) e segnatamente quelle che concernono la comunione dei beni, delle donne e dei figli (come già aveva compreso Édouard Biset de Charlais nell’edizione aristofanea del 1607 e approfondito Karl Simon Morgenstern nell’Epimetron della sua Commentatio de Platonis Republica, 1794 e dopo di questi Karl Ferdinand Ranke nella Commentatio de vita Aristophanis, 1830, e August Meineke); soltanto pregiudizi e preconcetti, insieme a qualche immetodica ricostruzione filologica, hanno contribuito nei secoli a ‘negare l’evidenza’, spostando prevalentemente il bersaglio aristofaneo su popolazioni esotiche! L’attacco che Aristofane muove a Platone si sostanzia di veri e propri rimandi testuali, allusioni e citazioni dal testo platonico e la commedia stessa si struttura sulla falsariga dei libri IV e V della Repubblica.

A sostegno di questa tesi Canfora abbassa la data di composizione della commedia (non essendo però certa la sua messa in scena), rispetto a quella tradizionalmente accettata (tra il 393 e il 390 a.C.), a dopo il 378/377 a. C. (fondazione della seconda Lega marittima), con le premesse che: (1) solo il fraintendimento dell’ Argomento III ha generato l’idea che il Pluto sia l’ultima commedia di Aristofane (mentre è l’ultima regia); 2) solo la comprensione storica effettuale dei versi 171-212 dà la chiave per datare ‘realisticamente’ la commedia al tempo della Seconda lega; 3) d’altra parte, bisogna dare credito a quanto Platone (o chi per esso, ma comunque ‘organico’ al suo entourage, e, dunque, comunque autenticamente) ha scritto (auto)biograficamente nella Lettera VII e ritenere di conseguenza che una Ur-Politeia era concepita e in tutta verosimiglianza già in circolazione prima del primo viaggio in Sicilia (388 a.C.); 4) non c’è ragione di negare realtà alla testimonianza di Gellio che parla di due libri usciti in anticipo e che potrebbero corrispondere ai libri centrali (IV-V), stante la stesura non lineare né continua della Repubblica; 5) l’Aristillo (diminutivo di Aristocle, che è il vero nome di Platone) motteggiato nel Pluto e nelle Ecclesiazuse è Platone: se Aristofane non prende di mira il filosofo col nome col quale è riconosciuto e col quale sarà bersagliato nella commedia ‘di mezzo’ e ‘nuova’ (Alessi, Teopompo, altri), ma con questo diminutivo, è perché non è più l’Atene di Pericle e di Socrate con la libertà dell’attacco ὀνομαστί, ma è l’Atene post-guerra civile con il suo μὴ μνησικακεῖν; 6) il ‘pittore più bravo’ di Ecclesiazuse 995 (quello che il giovane dice che sia l’amante della vecchia) è ancora Platone che nella Repubblica usa a più riprese la metafora della pittura e si pone come il ‘pittore perfetto’ della Kallipolis e che viene qui degradato a pittore di ‘anfore funerarie’ (funerarie per “la quasi necrofilia del suo eros per la vecchia Archeanassa”; occorre ricordare che Antistene, suo rivale socratico, in un suo dialogo ha mutato il nome Πλάτων in Σάθων “grosso pene/minchione” con allusione alla sua scandalosa condotta sessuale).

Il terzo capitolo della prima parte (pp. 106-114) si intitola “Platone replica alle Ecclesiazuse: il Simposio”) e la tesi è per l’appunto che il Simposio con la ‘caricatura’ che lì si fa di Aristofane rappresenti la risposta alle Ecclesiazuse. Tuttavia Canfora, premettendo che la datazione (incerta) del dialogo platonico è ipotizzata tra 385 e 378 a. C., alla fine opta per una data prossima alla ‘pace del Re’ (387 a.C.; p. 111). Se così stessero le cose (387 ca. Simposio, 378 ca. Ecclesiazuse), non si capirebbe come il primo possa essere la risposta alla seconda. Ma a quel punto del ragionamento di Canfora la data proposta per le Ecclesiazuse non è stata ancora avanzata e ci si muove nell’ipotesi che una Ur-Politeia sia stata messa in circolazione prima del primo viaggio in Sicilia e ciò può bastare data l’ipotesi tradizionale per la datazione delle Ecclesiazuse (“E’ comunque, quella che si recupera [per il Simposio], una data molto vicina all’ultima produzione aristofanea nota, Ecclesiazuse e Pluto (388)”. Tuttavia, una volta stabilita per la commedia di Aristofane la datazione a dopo il 378/377 a. C., vale una delle due ipotesi: o il Simposio va datato anch’esso intorno al 378 a.C. o non può essere la risposta alle Ecclesiazuse. A meno che, sulla base di quello che Canfora dice a p. 59 a proposito di Ecclesiazuse e Repubblica, non sia estendibile anche al Simposio: “Giacché le Ecclesiazuse che noi leggiamo possono essere una “riscrittura” (μετασκευή) di un testo pensato per la scena (e di cui non possiamo nemmeno sapere se sia davvero andato in scena)”, con riferimento al rifacimento librario delle Nuvole seconde. Ma a questo punto dovremmo supporre una Ur-Ecclesiazuse che ha di mira una Ur-Politeia intorno al 388 a.c. …

E’ comunque interessante la ricostruzione che Canfora fa della circolazione dei dialoghi platonici. Egli ritiene che essi sia venissero letti-recitati, sia avessero una circolazione scritta. Quanto al primo aspetto, “recitati in cerchie cui avevano accesso drammaturghi attivi e influenti come Aristofane e Agatone (non per caso messi a dialogare con Socrate nel Simposio), questi dialoghi provocano e attraggono coloro che forse ben più degli oratori e certo con maggiore libertà parlano alla città, cioè i drammaturghi” (p. 14). Quanto al secondo, Canfora si appoggia alle ricostruzioni di George Cronewall Lewis (186-1863) e di Bernard Abraham Van Groningen (saggio del 1963); in particolare, “un autore che ha terminato, o ritiene per il momento di aver terminato la scrittura (o la dettatura), mette lo scritto a disposizione di un determinato gruppo di persone: nel caso di Platone è ovvio che il destinatario è la cerchia immediata intorno a lui. Questa è la iniziale e spesso decisiva ἔκδοσις (“metter fuori”). E’ da quel momento che gli esemplari allestiti e socializzati intraprendono una loro incontrollabile vita. Una vita che scorre accanto e parallelamente rispetto all’ulteriore evoluzione che lo scritto subisce per il lavoro che l’autore continua a dedicargli.” (p. 31). In questa dialettica si inscrivono sia gli attacchi dei comici a Platone, sia le repliche di Platone ai comici (come ad esempio nella stesura definitiva di Repubblica V, 452d o 457a-b).

Nell’ultima parte, la sesta, del volume (pp. 287-371) Canfora segue le sorti del platonismo, le sue riprese, le sue distorsioni, le sue sublimazioni, le sue manipolazioni, tra cristianesimo e neoplatonismo e, oltre, nel pensiero utopistico. Il fine ultimo è presentare Platone come un filosofo ‘che si sporca le mani’ e la sua elaborazione politica (la Kallipolis) come una proposta non meramente contemplativa, ma operativa, e far emergere “quel filo fecondo e controverso che lo collega ancora saldamente al nostro presente”. Controverso: infatti nella Repubblica platonica convivono, da una parte, la proposta dell’abolizione della famiglia e della comunanza delle donne che è il filo rosso delle utopie socialiste (non ultima quella sovietica delle origini nelle idee della Kollontaj e di W. Reich) e, dall’altra, la proposta ‘eugenetica’ che è il filo nero delle aberranti e ripugnanti dottrine razziste e nazionalsocialiste. Ora, quest’ultimo punto, ma non solo questo, costituisce la facies laconizzante della Politeia platonica, pregna di elementi della tradizione oligarchica che gli derivano dalla riflessione e dall’esperienza politica di Crizia, già forse presenti nell’insegnamento socratico. E’ dunque singolare che Canfora a più riprese richiami l’attenzione su questo aspetto della Politeia di Platone e ne parli come il tentativo di attualizzare il modello spartano e più in particolare di ridare vita all’esperimento dei Trenta senza le loro aberrazioni (fin dall’Avvertenza iniziale), ma poi presenti il progetto platonico come “una via del tutto nuova” (p. 315), stante il fatto inequivocabile che tale progetto voglia produrre una palingenesi non solo dei rapporti sociali, ma soprattutto del modo di vivere i rapporti interpersonali e della morale. A ogni modo Platone viene letto versus Aristofane, come colui la cui riflessione è indirizzata alla costruzione dell’ ‘uomo nuovo’ di contro a colui che, forte di un realismo disincantato, nega praticabilità a qualsiasi progettualità tesa a modificare la natura umana.

A questo punto si impongono, a mio parere, un paio di considerazioni. La prima è che, come del resto emerge anche dall’analisi di Canfora, nel testo platonico la proposta della comunanza delle donne (avanzata da un punto di vista maschiocentrico e che la Prassagora aristofanea rovescia parodicamente nella ‘comunione di tutti gli uomini’) è intrinsecamente legata ai fini eugenetici (‘seconda ondata’). Questo non lo si dovrebbe mai dimenticare ogniqualvolta si riprende da Platone il tema della ‘comunanza di donne e figli’, così come (è un’idea cara a Cambiano) non si può pensare di riproporre la democrazia diretta ateniese senza pensare che quella democrazia si reggeva sul lavoro degli schiavi e la marginalizzazione politica di donne e stranieri.

La seconda considerazione riguarda invece Aristofane. E’ vero che egli nelle sue commedie rovescia l’utopia in distopia, e questo sicuramente per il suo ‘realismo disincantato’ e forse per la sua concezione della immutabilità della natura umana, ed è vero che è un conservatore nemico della democrazia radicale che ai suoi occhi sta portando Atene alla rovina. Ma è anche vero che le sue commedie non puntano all’immobilismo e che anche quelle possono avere un filo produttivo che le collega al nostro presente. Da un lato Prassagora proponendo la ‘comunanza dei beni’ (non solo delle donne) si fa portatrice di un rinnovamento sociale che va nella direzione di una ridistribuzione delle risorse esistenti; cito lo stesso Canfora: “Il presupposto è suddividere equamente l’esistente: vivere tutti meglio e tutti con meno. (p. 62)”. Come non vedere in queste parole un programma di decrescita alla Latouche? E se è vero che nella commedia il piano e le proposte di Prassagora divengono il bersaglio dell’autore (“nelle Ecclesiazuse il bersaglio è l’egualitarismo austero”, p. 63; “il senso (e forse anche il fine della commedia … dovrebbe consistere nel dimostrare il fallimento inevitabile … dell’utopia comunistica” p. 313), proprio in quanto rovesciamento parodico della politeia platonica, è pur vero che Prassagora “dice in modo pugnace e spiritoso tante cose che, a non pochi ateniesi, dovevano sembrare giuste … E’ però una contraddizione: far amare Prassagora e far ridere del comunismo” (ibid.). D’altro canto, nel Pluto il bersaglio è l’opulenza indiscriminata e illimitata, dono di un Pluto di nuovo vedente (p. 63). Ritorna ancora il Latouche di Limite, 2012, ma ritorna anche la ‘riduzione dei bisogni’ (e del desiderio) che ha ispirato tanta parte della riflessione socialista e marxista (oltre a quella di Salvatore Cicognetti citata da Canfora a p. 64, tornano in mente le pagine conclusive consegnate da Jean Fallot al bel saggio Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, 1977, con altrettanto bella introduzione di S. Timpanaro, e il libro di Agnes Heller, La teoria dei bisogni in Marx, 1974). Ma come non richiamare anche il Marcuse del Saggio sulla liberazione (1969) che proprio in apertura definisce ‘oscena’ l’opulenza delle merci nel capitalismo occidentale; saggio in cui Marcuse, tra l’altro, afferma che l’utopia non è “qualcosa ‘che non succede’ e non può succedere, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite” (trad. it., Einaudi, p. 15).

Tutto ciò rimanda a quel laboratorio politico che è stata ed è ancora per noi la democrazia ateniese dell’età classica, come testimonia, ancora una volta tra i tanti pubblicati, questo libro di Canfora, relativo al primo trentennio del IV secolo, al crocevia di un mutamento storico determinante: una cospicua produzione intellettuale che comincia a essere messa in circolazione (per iscritto) e che fa capo a ‘scuole’ o ‘cenacoli’ con i loro legami politici (p. 270).

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