La ‘capriola’ di Montale

E’ stato ripubblicato il Quaderno di quattro anni di Montale negli Oscar Mondadori, a cura di Alberto Bertoni e Guido Mattia Gallerani (con uno scritto di Cesare Garboli e un saggio di Giorgio Orelli). La prospettiva giusta dalla quale rileggere, oggi, queste poesie 1973-1977 è quella indicata a suo tempo da Zanzotto (1971, In margine a ‘Satura’) e richiamata da Bertoni nell’introduzione: il Quaderno è lì a testimoniare l’esito estremo di quel passaggio “dall’escatologia alla scatologia, vale a dire al destino escrementizio dell’uomo contemporaneo, secondo un iter di ‘merdificazione’ dell’esperienza che era stato anche di Beckett” (Bertoni, introd. p. LX). Perché non sembri gratuita scurrilità si leggano questi versi (Pasquetta):

La mia strada è privilegiata

vi sono interdette le automobili

e presto anche i pedoni (a mia eccezione

e di pochi scortati da gorilla).

O beata solitudo disse il Vate.

Non ce n’è molta nelle altre strade.

L’intellighenzia a cui per mia sciagura

appartenevo si è divisa in due.

C’è chi si immerge e c’è chi non s’immerge.

C’est emmerdant si dice da una parte

e dall’altra. Chi sa da quale parte

ci si immerda di meno. La questione

non è d’oggi soltanto. Il saggio sperimenta

le due alternative in una volta sola.

Io sono troppo vecchio per sostare

davanti al bivio. C’era forse un trivio

e mi ha scelto. Ora è tardi per recedere.

Ovviamente chi parla è colui che aveva contribuito (con Occasioni e Bufera) in prima persona e in capo agli altri a fare della lingua poetica italiana uno strumento di separazione da una realtà che non fosse quella preziosa del simbolo (fattosi oggetto o emblema, che si voglia). Ma come è ben esemplificato in La poesia:

Dagli albori del secolo si discute

se la poesia si dentro o fuori.

Dapprima vinse il dentro, poi contrattaccò duramente

il fuori e dopo anni si addivenne a un forfait

che non potrà durare perché il fuori

è armato fino ai denti.

è venuto il tempo del ‘prosaico’ che, tuttavia, non insorge più contro l’aulico per ricavare ‘scintille’, come lo stesso Montale ebbe a dire di Gozzano e come Sanguineti amò ripetere a proposito dello stesso Montale (il Montale degli Ossi), ma che piuttosto “mira a stringersi soprattutto, nell’ universale ‘trionfo della spazzatura’, e forse esclusivamente, a quel repertorio tematico estremo, di autocritica della scrittura in versi, di risentita elegia maligna sopra le sorti della poesia”, per cui “il meglio dell’ultimo Montale, in ogni caso, è in certo realismo perverso e gustoso, in una volontà ostentata, che emerge con insistenza, di lasciare i suoi lettori più pigri, con qualche amara inquietudine, ‘interdetti e dubbiosi’” (Sanguineti, Tombeau per Eusebio III, 1981, in Gazzettini, Editori Riuniti, 1993, pp. 158-159).

A dispetto di quanto disse nel discorso in occasione della consegna del premio Nobel, 12 dicembre 1975, dal titolo E’ ancora possibile la poesia? (“Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa? E’ ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se s’intende la cosiddetta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia”), Montale con il Quaderno, insieme a Diario del 71-72 e Altri versi, ma a cominciare già da Satura (cioè il ‘secondo Montale’), muta “totalmente il suo modo di concepire e di ‘fare’ poesia, che passa da prodotto elitario e artigianale a prodotto di serie, ‘industriale’, e di consumo” (A. Pietropaoli, “Sul filo della corrente”. Il secondo Montale, in Le strutture dell’anti-poesia, Guida 2013, p. 145), dando vita “alla più spettacolare e significativa ‘capriola’ poetica (tematica e stilistica) del Novecento” (id., p. 146).

Se Bertoni vede nell’ultimo Montale l’influenza di poeti più giovani come Sereni, Giudici, Caproni, Zanzotto e la volontà ostinata di non “approdare alla lingua schizomorfa ed esplosa dei poeti della neoavanguardia”, non sarà in contraddizione il fatto che tutto ciò avviene sotto la spinta del ‘terremoto’ letterario provocato proprio dalla neoavanguardia: “non c’è niente di male nell’ammettere che la rivoluzione neoavanguardistica con tutte le sue implicazioni culturali ed estetiche apre definitivamente gli occhi al poeta [(…)], lo fa desistere prima dal far poesia e poi dal continuare a farla alla maniera usata … Montale intuisce che dietro quel secondo terremoto estetico c’era ben altro: la seconda svolta neo-capitalistica” (Pietropaoli p. 153-154). Un percorso, questo, analogo per molti versi a quello di Pasolini. Si tratta di un punto decisivo e da tenere in seria considerazione ogniqualvolta si parla di novecentismo e di antinovecentismo. La due linee parallele sono a un certo punto attraversate da una linea orizzontale che apre uno scenario del tutto nuovo. Anche un giovane critico come Raffaele Donnarumma scrive che “è stata la neoavanguardia a rappresentare, per molti scrittori venuti dalla tradizione umanistico-borghese e modernista, una crisi irreversibile … La neoavanguardia, si disse, era espressione del caos e del fango in cui l’occidente si stava impantanando: e lo dissero Montale come Calvino, Pasolini come Zanzotto. Questi scrittori sentivano che con la neoavanguardia bisognava fare i conti, perché essa diceva qualcosa di vero sul presente. Tutti loro, in qualche modo, si trovarono a dover attraversare la neoavanguardia, a rivedere la loro posizione, a rispondere alle sue parole d’ordine, persino ad assumerne alcuni modi espressivi.” (Ipermodernità, il Mulino, 2014, p. 41).

Ma ovviamente ognuno fa i conti col bagaglio della propria storia. E la ‘capriola’ di Montale ripropone i nuclei ideologici di sempre: con maggior scetticismo, con minor metafisica, entro le strutture frammentarie del diarismo, trova comunque corpo quella ‘mitologia dell’inetto’ che Sanguineti gli ascrive (in Il chierico organico, Laterza 2000, pp.227-240):

L’immane farsa umana

(non mancheranno ragioni per occuparsi

del suo risvolto tragico)

non è affar mio. Pertanto

mi sono rifugiato nella zona intermedia

che può chiamarsi inedia accidia o altro.

Si dirà: sei colui che cadde dal predellino

e disse poco male tanto dovevo scendere.

Ma non è così facile distinguere

discesa da caduta, cattiva sorte o mala.

(L’immane farsa umana …)

In forme nuove, naturalmente, rispetto al passato, se ha ragione Luperini quando scrive a conclusione della sua Storia di Montale (Laterza, 1986): “Nell’ultimo Montale la frammentazione aneddotica non è che la spoglia inerte e lacerata dell’antica vocazione simbolica … siamo, a ben vedere, oltre la grande tradizione orfico-romantica e poi simbolistico-decadente e infine ermetico-analogica, in un’epoca nuova, in cui non si dà più possibilità di simbolo ma solo del suo rovesciamento (talora anche parodico) nelle forme vuote di un’allegoria in cui si esprime quel che resta di un bisogno frustrato di senso e di valore.” Come in Domande senza risposta:

Mi chiedono se ho scritto

un canzoniere d’amore

e se il mio onlie begetter

è uno solo o è molteplice.

Ahimè,

la mia testa è confusa, molte figure

vi si addizionano,

ne formano una sola che discerno

a malapena nel mio crepuscolo.

Se avessi posseduto

un liuto come d’obbligo

per un trobar meno chiuso

non sarebbe difficile

dare un nome a colei che ha posseduto

la mia testa poetica o altro ancora.

Se il nome

fosse una conseguenza delle cose,

di queste non potrei dirne una sola

perché le cose sono fatti e i fatti

in prospettiva sono appena cenere.

Non ho avuto purtroppo che la parola,

qualche cosa che approssima ma non tocca;

e così

non c’è depositaria del mio cuore

che non sia nella bara. Se il suo nome

fosse un nome o più nomi non conta nulla

per chi è rimasto fuori, ma per poco,

della divina inesistenza. A presto,

adorate mie larve!

E’ l’ultima ‘grande maschera montaliana’ quella del vecchio Re Lear ‘dalla mente debole e confusa’ e che ha superato gli ottanta anni: “le ‘figure che si addizionano’ nella debole mente del poeta-Fool-Lear in Domande senza risposta son ormai tutte nella bara [(…)]. Conta poco, dice il poeta, se fosse una o più di una, per chi attende di raggiungerle nel Nulla.” (Laura Barile, Adorate mie larve, il Mulino, 1990, p. 117 e 125).

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5 risposte a La ‘capriola’ di Montale

  1. fernando ha detto:

    Una prospettiva davvero interessante, che mette insieme passione e convinzione della centralità della neoavanguardia (la linea orizzontale che attraversa e taglia le due linee del novecentismo e dell’antinovecentismo) con una lettura del “secondo” Montale contestualizzata in modo convincente nella cultura del tempo. Le nebbie della mia ignoranza cominciano a dissiparsi…

    • maurizioallegri ha detto:

      Ovviamente non tutti saranno d’accordo. E sono convinto che … anche Bulega non lo sia. Ma c’è un dato ormai consolidato in sede critica che è difficilmente interpretabile in modo diverso da come l’ho proposto sulla scia degli studiosi citati, ma anche di altri. L’antologia I novissimi esce nel 1961 ed è subito un caso, perché costringe a misurarsi con una idea di poesia inedita. Negli anni immediatamente a seguire poeti già affermati mutano il loro modo di fare poesia (seguo ora Enrico Testa, Dopo la lirica, Einaudi 2005): Andrea Zanzotto con IX Ecloghe, 1962, adotta un linguaggio plurilinguistico che attenua fortemente la ricerca di purezza e di liricità che avevano caratterizzato le raccolte poetiche degli anni Cinquanta (Dietro il paesaggio, 1951; Elegia e altri versi, 1954; Vocativo, 1957); Mario Luzi, poeta ermetico d’eccellenza, con Nel magma, 1963, dà voce non più e tanto alla soggettività, ma al negativo e alla casualità dell’esistente; Vittorio Sereni, di provenienza ermetica, con Gli strumenti umani, 1965, dà una svolta alla propria produzione poetica all’insegna della storia; Giorgio Caproni con Congedo del viaggiatore cerimonioso, 1965, esce dalla pronuncia oracolare e lirica precedente; i giovani che si affermano sulla scena poetica come Giudici con La vita in versi, 1965, e Raboni con Le case della Vetra, 1966, risentono in pieno del rinnovamento proposto. A ciò va aggiunto che Montale inaugura un il suo nuovo modo di fare poesia con Satura che raccoglie le poesie 1962-1970, così come Pasolini con Poesia in forma di rosa 1964. Certo dietro c’è il mutamento socioeconomico del neocapitalismo, di cui tutti risentono, ma i primi interpreti di questo e i primi a proporre una poesia che se ne faccia carico sono I novissimi, la cui seconda edizione esce nel 1965. Non si possono escludere al livello teorico percorsi autonomi e personali di adeguamento alla nuova realtà, ma è più economico e per me più verosimile che I novissimi abbiamo indotto a guardare alla realtà e al linguaggio poetico in modo nuovo chi fino allora aveva seguito una via radicalmente diversa.

  2. fernando ha detto:

    La sintesi delle pubblicazioni post-1961 che hai fatto assomiglia molto a uno smottamento, se non ad un vero e proprio terremoto: e le cause che indichi (effetto del mutato clima economico e sociale, o risposta alla voce dei novissimi) non mi paiono in reciproca esclusione, ma al contrario facce della stessa medaglia, anche se capisco che a te piace contemplare molto più il recto della rottura nella tradizione poetica che il verso del comune terreno socioculturale tendente a produrre frutti analoghi e confrontabili…

  3. maurizioallegri ha detto:

    Forse o sicuramente non sono stato chiaro: 1) c’è il mutamento socio-economico 2) c’è il mutamento culturale e poetico (a questo punto mi avvedo che parlo con la zappa e con il Diamat). I primi a cogliere il tutto sono i Novissimi che danno l’avvio al mutamento generale.

  4. maurizioallegri ha detto:

    E’ un vero e proprio terremoto …

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