Romano Luperini, L’ultima sillaba del verso

 

Formalmente è la ‘cronaca’ dell’ultimo decennio del Novecento, più propriamente un’autofiction, che va a costituire, dopo L’uso della vita. 1968 (2013) e La rancura (2016), l’ultimo romanzo di una trilogia. La ‘cronaca di fine millennio’ copre gli anni 1988-2001, con un Prologo (2012) e un Epilogo (2013).

“L’ultima sillaba del verso” è quella che dovrebbe rivelare il senso del cammino compiuto, il significato, sempre affidato al domani, di una intera vita : “Ma quando non ci sono più mete e la morte è soltanto la fine?”. La scrittura è lo strumento che potrebbe catturare questo senso, altrimenti potrebbe servire “a riempire il tempo e, come a Shahrazād, a ingannare la morte.”

Sullo sfondo è la realtà politica che diviene sempre più remota, nella consapevolezza di essere un sopravvissuto e di aver fallito: “E in qualcosa dobbiamo aver sbagliato tutti, io e i miei coetanei, l’intera mia generazione, se la politica, su cui abbiamo scommesso tutto, è scomparsa dal nostro orizzonte, e viviamo nell’impotenza, nell’impossibilità di capire il mondo e di agire per cambiarlo.” Ma il 68 resta, a ogni modo, uno dei due periodi più felici dell’esistenza del protagonista, Valerio.

In primo piano è la storia di un corpo che va incontro al proprio disfacimento. Nella Rancura il figlio di Valerio trova in un volume del padre ormai morto “un foglio inframmezzato” che “gli squaderna davanti un Diogene ellenistico” e “sul bordo bianco della pagina, scritte a penna, queste parole: ‘Il corpo. Quando lo ignoravo fioriva. Ora che lo circondo di cure, si disfa’.” Adesso, sempre nel Prologo: “La vita è fatta così, si riesce a vivere, si riesce a vivere solo quando ci si aspetta di vivere (almeno un anno, qualche mese, qualche settimana), ma quando a ogni controllo trimestrale, a ogni RMN, a ogni PET, ti aspetta una catastrofe possibile al 33 per cento, che vita è?”

Al centro, prima che il corpo precipiti nella catastrofe, è la storia d’amore con Claudine, il secondo momento felice di tutta l’esistenza. Claudine rappresenta l’ultima occasione, per il professore cinquantenne, di afferrare quell’uso formale della vita che era l’obiettivo del 68: “Marcello pensava alla leggerezza di Soriano, non era incerta né svagata, ma a suo modo decisa, orientata a una meta. L’aveva ritrovata anche in Ilaria, nei gesti e nei movimenti dei compagni, nelle facoltà occupate e davanti alle fabbriche, e persino in se stesso. Ecco l’uso formale della vita probabilmente non era altro che questo.” (L’uso della vita. 1968).

Nel momento in cui incontra la giovane laureanda Claudine, nel 1992, Valerio intravede, sulla scia dell’immagine della madre, che “il senso della vita, stava lì, in ogni cosa, nelle minuzie della quotidianità, nella lentezza, nella ripetizione, dove io ho disimparato a cercarlo e dove ormai non posso trovarlo più.” Infatti è con Claudine, già maritata, che vive una relazione in qualche modo coniugale, anche se tra mille difficoltà e contraddizioni, e che si immagina un possibile futuro insieme. Nel frattempo, la convivenza con Betty, giovane archeologa canadese, si avvia alla conclusione: “Dalla donna-madre mi ero separato, con la donna-Carmen avevo capito che la passione non basta e decisiva è la vita quotidiana, ed è importante anche dare una mano, anche togliere la polvere… e ora convivevo con una donna che aveva bisogno di aiuto ma reagiva con ansia e inquietudine a ogni mia premura protettiva. Avevo dedicato l’esistenza alla lotta politica, alla letteratura e alla ricerca di una relazione felice con una donna. La letteratura era diventata un mestiere, la lotta politica era ormai impossibile, e le donne… le donne erano ancora un problema, un nodo che non riuscivo a sciogliere.” (La ‘letteratura come mestiere’: “nessuno cercava più nei testi il senso della vita.”).

Se, da un lato, Valerio cerca di schermirsi di fronte a Claudine (“ho pensato per un attimo che l’amavo, ma subito mi sono sentito ridicolo… Devo evitare di cadere nel ridicolo dell’uomo di età matura, anzi già quasi anziano, che fa il romantico per una giovane”), dall’altro, capisce presto di vivere una “felicità straordinaria, una felicità amorosa”, mai incontrata prima, e concepisce la clandestinità come la condizione che pone lui e lei in un rapporto pienamente libero e autentico: “Quando siamo insieme, tutto il resto sparisce. Non siamo uniti da altro che dal nostro desiderio. D’altronde non condividiamo né amici né parenti, né momenti comuni di vita sociale. Siamo sempre io e lei… due corpi che tendono l’uno all’altro, sensazioni, emozioni, pensieri che si intrecciano e si scambiano.” Ma a lungo andare questa condizione privilegiata diviene una prigione, soprattutto col manifestarsi di due fattori deflagranti: anzitutto, la personalità scissa di Claudine, tra Claudine e Dina, tra la giovane donna che si concede libera al desiderio e al piacere e la giovane sposa ligia al dovere e decisa a non lasciare il marito e a non deludere la madre; in secondo luogo, la circostanza che i due, in ultimo, si incontrano una sola volta alla settimana, sempre lo stesso giorno, martedì, sempre dalle dodici alle quindici, per sole tre ore. Tutto ciò, se viene vissuto, soprattutto da Valerio, negli aspetti che appaiono positivi, alla fine si rivela micidiale: in un momento di lucida consapevolezza Valerio confessa a se stesso che “ora ho capito… capito che cosa? Che non c’è più nulla da capire e non mi resta che una passione tutta privata, privatissima, addirittura clandestina?”

Claudine troncherà la relazione, che alla lunga vivrà con sempre maggior disagio, quando saprà d’essere incinta del marito (ma come avrebbe voluto essere lui il padre, Valerio!). Allora rientrerà nei ranghi e nell’ordinarietà della vita coniugale e sociale: sposa, madre, insegnante in una scuola tecnica, sempre di corsa, sempre indaffarata, felice che Dina abbia finalmente sconfitto Claudine e paga della propria ‘prosa esistenziale’. E’ certo però che Valerio alla fine indossa i panni di quell’inetto, la cui figura ha attraversato tutto il Novecento: “Non spiegano [scil. gli strumenti di un’analisi razionale] perché Claudine sia stata l’unica donna con cui avrei potuto vivere (ora lo so, con certezza), e neppure la rabbia che mi rode, il pensiero che per troppo tempo, all’inizio, ho lasciato che lei sfiorasse la mia vita senza farmene carico, senza farmi carico di lei e di me, senza assumermi la responsabilità dei mie sentimenti, anzi sminuendoli e ignorandoli. In fondo sono stato io a non aver coraggio… A sfuggirmi è stato qualcosa di molto più sottile di quello che questi strumenti possono captare, qualcosa che riesco a esprimere solo con una negazione, con un ‘non so’, un ‘non capisco’”.

Con la storia d’amore s’intreccia la storia politica, ove, accanto ai compagni di lotta, campeggiano tre grandi intellettuali, che muoiono proprio in quegli anni: Volponi, Fortini, Sebastiano Timpanaro; tre Maestri del pensiero critico, radicale, marxista. Il loro pensiero e la loro personalità fanno da contraltare al degrado e al declino politico, sia sul versante istituzionale sia su quello della progettualità e dell’analisi. Ma Valerio, di una generazione più giovane, si sente ormai, come si accennava, rinchiuso nel suo privato e nel rimpianto del tempo perduto. La militanza ‘totale’ del 68, quando politica e vita erano una cosa sola, quando l’ebbrezza della rivoluzione innervava i corpi, quando ci si abbandonava leggeri all’amore, non lascia spazio non solo a nuove utopie, ma nemmeno a nuove speranze. Declino e degrado non risparmiano nemmeno l’Università, con la sua burocratizzazione e la sua aziendalizzazione.

La morale, come spesso accade, non appartiene al protagonista, bensì a Massimo, il grande e intimo amico e sodale. Brecht aveva detto che “se avessimo in mano una vita buona non avremmo bisogno né di grandi moventi né di saggissimi consigli, e cesserebbe tutto il tormento della scelta”, al punto che potremmo lasciarci guidare dall’ultima canzonetta in un momento decisivo della vita (Storie del Signor Keuner). La vita buona dunque coincide con quell’uso formale della vita che, agli occhi di Luperini, è il fine del comunismo e che è stato il progetto politico sconfitto del 68. Che cosa resta allora? Resta la vita di sempre, che, di fronte al dominio della ragione strumentale, non può che essere ‘vita sporca’, ma che rimane pur sempre vita: “Vogliamo che tutto sia ordinato, pulito, disciplinato, che tutto dipenda dalla nostra volontà e dalla nostra ragione, ma la vita è sporca, sporca e incontrollabile…Qualche volta bisogna lasciarla andare dove lei vuole.”

In conclusione un’allegoria: l’ incontro di Valerio, ormai consumato dagli anni, con Claudine, con cui si chiude il racconto, l’ultimo incontro (?). Il vicino li vede: “Questa è sua figlia, vero?” – “No, non ancora” . (Nel risvolto di copertina ella “resta una possibile, misteriosa e imprevedibile amante”. Ma Luperini è un fine esegeta di Montale).

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