“I cani del Sinai”. Leggendo e rileggendo Fortini nel centenario della sua nascita (2)

Da una guerra all’altra (su Fortini e la guerra, si veda Ennio Abate, Fortini, la guerra e la pace, in Cinque lezioni per Fortini, a cura di Paolo Giovannetti, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2004). Dalla guerra di liberazione, che ha costituito per Fortini l’origine delle proprie posizioni ideologiche e politiche, alla guerra dei “sei giorni”, che è stata, invece, l’occasione per ridiscutere le proprie origini ebraiche (ma “parlo anche dei casi miei perché certo che solo miei non sono”).
I cani del Sinai (1967) nascono anche come risposta alla ‘meraviglia’ che alcuni parenti ebrei mostrarono per il suo silenzio e il non sostegno a Israele nella guerra che lo oppose alle truppe egiziane nel deserto del Sinai: “Se non è vero che aderisco alle tesi antisraeliane del Pci, devo allora dichiarare la mia solidarietà con Israele… Conosco il metodo. Mi si vuole ‘schedare’? Queste pagine sono la mia scheda.”
Ma che cosa significa “cani del Sinai”? Così in esergo: “ ‘Fare il cane del Sinai’ pare sia stata una locuzione dialettale dei nomadi che un tempo percorsero il deserto altopiano di El Tih, a nord del monte Sinai. Variamente interpretata dagli studiosi, il suo significato oscilla tra ‘correre in aiuto del vincitore’, ‘stare dalla parte dei padroni’, ‘esibire nobili sentimenti’. Sul Sinai non vi sono cani.”
Chi sono i ‘cani del Sinai’? “I cani del Sinai non sono soltanto quei miei connazionali europei che hanno sfogato il loro odio per il diverso e il contrario (ieri gli ebrei, oggi gli arabi, domani il cinese, il sudamericano, qualunque ‘rosso’): sono anche metafora ironica dei nostri più vicini e goffi nemici, quelli che latrano in difesa delle tavole d’una legge che nessun dio ha mai dato e che nessuno può decifrare, tanto è lorda di vecchia strage.”
La verità (perché “la verità esiste, assoluta nella sua relatività”) è innanzitutto che per Israele è stato compiuto un vero e proprio capolavoro di propaganda (“i servizi televisivi: arma totale”), a cominciare dal corrispondente Arrigo Levi: “ ‘Sono obiettivo’, diceva quel volto; e l’educato accento ripeteva. ‘Il mio cognome non deve contare’, sono l’informazione, il servizio al pubblico, rappresento la democrazia, il fair play, la civiltà, il bene.” Ma c’è di più: “Il moto dell’opinione manipolata m’ha fatto capire fino a che punto siamo stati ridotti a usare gli eventi mondiali con la stessa dissipazione puerile che esercitiamo sui ‘prodotti’: a consumarli.”
Si combatte per la verità. E quelli dei “Quaderni Rossi” e dei “Quaderni Piacentini”, riuniti a Torino, hanno la loro verità politica da proporre: “il conflitto ha concluso l’assunzione, da parte delle dirigenze politiche israeliane, di un mandato di compartecipi e di uomini di mano degli interessi economico- militari americani e, subordinatamente, inglesi in quella parte del mondo”. Perché “più che naturale che gli Israeliani – o meglio: coloro che ne controllano l’opinione – abbiano fatto ricorso all’onore della persecuzione storica come elemento potente di passioni ed orgogli patriottici […] Altrettanto naturale ma molto più grave che […] l’unione sacra fra i partiti si compia di necessità oscurando la rilevanza dei legami internazionali di Israele, insomma il compito politico che Stati Uniti e Inghilterra sembrano aver assegnato a quel paese.”
Si combatte per la verità. “Due auto posteggiate davanti a casa mia portano appiccicato un foglio a stampa, altra fulminea espressione di genialità pubblicitaria: IO AIUTO ISRAELE. Non oserò scrivere sulla mia auto IO AIUTO I VIETCONG, mi sono care la carrozzeria e le gomme. Una dopo l’altra, di giorno in giorno, le notizie di A. o di B. o di C., ebrei e non ebrei, che si uniscono al coro.”
Si combatte per la verità. Un avvocato, “ometto ciarliero e allegro, tutto nervi, che brusche depressioni rendevano tetro e disfatto” era venuto scoprendo, “dentro la vita più nera e ghiaccia di Firenze”, negli anni immediatamente dopo la seconda guerra, alcune “poche cose certe”. E in un processo “contro un gruppo di fascisti che avevano contribuito alla deportazione di 341 ebrei fiorentini, di cui solo 7 tornati dai campi tedeschi”, molti, troppi parenti delle vittime non si erano presentati a testimoniare: “c’è che con i capi e autorità fasciste, con la borghesia fascista, quella gente prima del 1938 era in ottimi rapporti […] partecipando di eguali gusti e della medesima vita perché della stessa classe.”
E, allora, non poteva suonare retorico che la soluzione sarebbe potuta venire solo dall’unione delle forze rivoluzionarie subalterne di Israele e degli Arabi. Solo che in una retrospettiva del 1978 (una nota per Jean-Marie Straub che, insieme a Danièle Huillet, aveva tratto un lungometraggio dall’opuscolo) si trattava di “una previsione fino ad oggi smentita dai fatti; i fatti internazionali che ci hanno condotto alla situazione presente, di reazione generalizzata. […] E oggi molti di noi accettano […] l’immagine del caos e dell’insensatezza.”
Eppure non tutto è perduto (“Bisogna voler ben altro.; e anzitutto credere, come Lenin diceva, che ad ogni situazione esiste una via d’uscita e la possibilità di trovarla”) e c’è un’immagine proustiana a significarlo: “cresca l’erba non dell’oblio ma delle opere feconde, sulla quale le generazioni future verranno lietamente a fare le loro ‘colazioni sull’erba’, incuranti di chi dorme là sotto”. E’ la stessa immagine che diversa e più potente, se non mi inganno, si trova nella poesia Gli ospiti, compresa in Questo muro (1975):

I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari.
La sola cosa che importa è
il movimento reale che abolisce
lo stato di cose presente.

Tutto è diventato gravemente oscuro.
Nulla che prima non sia perduto ci serve.
La verità cade fuori dalla coscienza.
Non sapremo se avremo avuto ragione.
Ma guarda come già stendono le loro stuoie
attraverso la tua stanza.

Come distribuiscono le loro masserizie,
come spartiscono il loro bene, come
fra poco mangeranno la nostra verità!
Di noi spiriti curiosi in ascolto
prima del sonno parleranno.

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