Numero primo – Marco Paolini

Come esplicitamente dichiarato dall’autore, Numero primo non è ancora uno spettacolo, è un lavoro in fieri, una bozza, un’anteprima. Da qui la scelta di avere platee ristrette di spettatori, e sabato scorso – nell’ambito della rassegna L’ultima luna d’estate – eravamo infatti (relativamente) in pochi ad ascoltarlo: all’aperto, in una serata dal clima mite, e con alle spalle di Paolini il muro di una villa malconcio e dalle persiane scrostate… per sorte o per scelta la giusta scenografia per la via Piave in cui si ambienta una parte della favola che Paolini ha inscenato.

Alla favola, la vicenda del bambino che vuole essere chiamato Numero, è fatto precedere un prologo, che è una riflessione sul rapporto tra noi, nativi-digitali e non, e le recenti tecnologie-alla-mano, smartphone innanzitutto. Paolini non stigmatizza (uno smartphone ce l’ha anche lui), ma si interroga in un susseguirsi di pensieri sparsi, inframmezzati da battute e siparietti tristemente e comicamente veri, il cui trait d’union è il concetto di ‘cosa’. Anche le recenti tecnologie digitali sono cose, oggetti che l’uomo da sempre crea per addomesticare il mondo attorno a sé e facilitare le proprie attività quotidiane; ma l’immaterialità di queste nuove cose, la loro potenziale autogenerazione, la mancata necessità di un apprendimento e infine la loro velocità ne fanno oggetti peculiari. Per quanto perlopiù siano strumenti di comunicazione, e in ciò risieda la loro pervasività, essi si fanno anche magazzino di dati stipati nei cloud, immateriali, talora resi inaccessibili proprio per preservarli… e noi in tutto questo? Beh, noi «preghiamo che non piova»! Sono cose che «transustanziano», cambiando spirito con gli aggiornamenti ma mantenendo il medesimo corpo: software e hardware in termini più familiari, però la possibilità che tali oggetti imparino e si auto-modifichino non è poi così remota (peraltro vi si è dedicato proprio questo lunedì un frammento del programma Presa diretta). Sono tecnologie complesse le quali però, osservava inoltre Paolini, non necessitano da parte nostra di un apprendimento: non impariamo a usarle a scuola o sul luogo di lavoro, ma dalle persone più giovani di noi, la maggior parte delle quali in realtà – e questa è un’osservazione mia – non sa fare molto di più che servirsi delle interfacce user-friendly; la complessità, la costruzione di queste tecnologie, resta appannaggio di chi se ne occupa. E infine la velocità, che in queste nuove cose si declina soprattutto come simultaneità, come possibilità, in buona parte illusoria, di poter svolgere più attività contemporaneamente grazie al principio dell’essere sempre connessi alla rete e ai nostri contatti. L’esito di tutta questa accelerazione, e qui risiede la riflessione più acuta del prologo di Numero primo, è alla fine la voglia di frenare perché, semplicemente, non ce la facciamo più. Siamo noi che abbiamo scelto di correre grazie a questi nuovi strumenti, ma a un certo punto ci rendiamo conto di non poter mantenere più il ritmo. E allora? E allora «diventiamo vegani, ci appassioniamo alle passeggiate in montagna». Fuor dagli esempi, ci rivolgiamo alla natura. Perché l’uomo vive una dicotomia tra speranza e fiducia, l’una ha la dimensione temporale del futuro e la forma fisica delle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche («so che mi verrà un cancro, ma per quando accadrà spero che ne abbiano scoperto la cura»); l’altra è piuttosto legata al passato, a ciò che di confortevole custodiamo di esso, e ha l’aspetto fisico della natura, incontaminata e dotata del potere di mitigarci. Il nostro dramma è che abbiamo bisogno di entrambe, speranza e fiducia, ma che queste non procedano mai appaiate, dislocate come sono in tempi e spazi differenti, in cavità diverse della nostra stessa anima.

L’eco di tali riflessioni prosegue nel nucleo dello spettacolo, una favola che fa fare allo spettatore un balzo in avanti di cinquemila giorni raccontando la vicenda di Ettore, fotografo, scelto da una donna morente per diventare il padre del figlio di lei. Ettore di Echnè conosce solo la voce, non l’ha mai incontrata di persona, ma ne è innamorato. E così, insieme a un bambino di cinque anni affidatogli sulle Tazze di Gardaland, Ettore si imbarca nell’avventura della paternità. Lo scenario è quello futuribile di una Venezia multietnica contro il cui cielo si staglia la sterminata fabbrica di neve artificiale (neve vera non ne cade ormai più) di Porto Marghera; è quello di pecore (elettriche?) costruite e spedite via Amazon in 45 minuti; è quello di una Trieste dove nella avanguardistica Scuola elementare Steve Jobs (già Giosuè Carducci) la dirigenza capitola di fronte alla piaga dei pidocchi. La società che emerge è un curioso e esilarante connubio tra ultraprogresso tecnologico e atmosfere da saga di paese, con personaggi la cui comicità, che gioca abilmente col macchiettismo, attinge da tutto lo Stivale. È distopia, nostrana e dall’accento veneto, ma nondimeno distopia. E il bambino Numero, col suo genio matematico strabiliante che desta oscuri e minacciosi interessi, è la figura più umana tra tutti i personaggi, perché dell’uomo ha il talento maieutico di trarre dagli altri il meglio, cioè il buono, di se stessi.
Ma cosa sia Numero non è in verità chiaro, e in una chiusa di spettacolo che vira verso il tragico e il surreale, tra topi e gabbiani, ritornano le riflessioni del prologo. Paolini non spiega, allude, ma la percezione è quella che Ettore (ovvero noi) sia stato calato in un esperimento dove il confine tra Umano e Artificiale non è più percepibile, quasi un’allucinazione che lascia il protagonista tra interrogativi e sconforto. Ma – e questo è quanto basta – là dove persistono l’amore e il coraggio, lì vi è ancora e di nuovo l’Uomo.

P.S. Se questa anteprima mi è piaciuta? Sì, molto, e complice anche il mio debole per la distopia. E un’amica, che era con me e che segue con assiduità la produzione di Paolini, mi ha detto di aver trovato Numero primo migliore degli ultimi spettacoli dell’autore, dove Paolini le era parso adagiarsi in una ripetizione di se stesso. Alle ben note simpatia e presenza scenica si aggiunge qui una virata sperimentale che incuriosisce e crea aspettative nel pubblico.
Il futuro, almeno in arte e in letteratura, sembra fare un gran bene!

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2 risposte a Numero primo – Marco Paolini

  1. fernando ha detto:

    Paolini gode della mia stima incondizionata da quando inciampai letteralmente nel suo monologo sul Vajont, trasmesso da Rai2, credo alla fine del 1997 o agli inizi del 1998: ho netto il ricordo di mio figlio maggiore, allora di pochi mesi, da poco messo a dormire da mia moglie, e della decisione di cercare di dormire anche noi approfittando della fortunata circostanza (succedeva di rado che il piccolo si arrendesse così presto)… e mentre stavo facendo zapping sul divano, ecco questo monologo. Lo seguo per cinque minuti, poi mi dico: ok, ancora due minuti e poi vado a letto. Sono stanco, siamo stanchi, dobbiamo riposare. Ancora cinque minuti. Mia moglie va di là. Il monologo prosegue. Io: ancora cinque minuti poi spengo. Invece resto, ipnotizzato, a guardare. E di cinque minuti in cinque minuti lo seguo tutto. Una forza comunicativa straordinaria, una passione civile e di denuncia forte, una capacità di coinvolgimento magnetica.
    Non ho più seguito niente di Paolini da allora, ma è rimasto un mio mito. E se adesso si è dato alla fantascienza (e che fantascienza: ho colto l’allusione a Do androids dream of electric sheep? di Dick), beh, mi sa proprio che dovrò recuperare…

    • Federica ha detto:

      Quella sera praticamente eravamo tutti lì, tutti inciampati e catturati dal monologo sul Vajont! Di anni ne avevo nove e anch’io mi ricordo di essere rimasta lì incantata, sempre più coinvolta (e sconvolta) dal racconto di quel disastro e dall’energia scenica di Paolini. Forse non potrà essere annoverato tra i momenti televisivi impressi nella memoria collettiva, però ci va davvero vicino, ed è notevole che lo abbia fatto con una pièce teatrale!
      In anni recenti ho visto Ausmerzen, sull’operazione del regime nazista nota come Aktion T4, di cui mai avevo sentito parlare nello specifico prima di ascoltare questo spettacolo. Bello perché, nello spirito della passione civile citata da fernando, Paolini sposa la necessità della testimonianza alla riflessione sulle implicazioni socio-culturali dei fatti raccontati. È la sua cifra, l’ho ritrovata sabato in Numero primo; in Ausmerzen il nodo è quello delle ‘vite indegne di essere vissute’, con riflessioni che non restano confinate entro il recinto spinato della degenerazione nazista.

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